Però quel ragazzo ne ha fatta di strada

Roberto Beccantini4 ottobre 2019

Un paziente di lunga corsia, il gentile Teodolinda, mi chiede un pensiero sull’addio di Claudio Marchisio, triste come tutti gli addii che, al di là del tifo, mutilano una passione e chi, non importa la maglia, questa passione ha fecondato. Basterebbero, per rendere l’idea dell’uomo e del giocatore, le righe di Andrés Iniesta, riportate dal non meno gentile Alex Drastico: «Mi è piaciuto vederti giocare, ma ancora di più competere contro di te. Oggi il calcio è un po’ meno calcio».

Lascia, Claudio, a 33 anni, vinto dai ferri del chirurgo, dopo una carriera che tanto gli ha dato anche perché lui le ha sempre dato tutto. Leale, elegante («di profesion bel zovine», avrebbe detto Nereo Rocco), centrocampista di posizione e di incursione, liberato da Calciopoli, membro a pieno titolo di uno dei quadrilateri più forti e meglio assortiti che la Juventus (e, permettetemi, il nostro campionato) abbia mai prodotto: con Andrea Pirlo, Arturo Vidal e Paul Pogba non poteva non crescere, non poteva non farlo crescere (il reparto).

Proprio il Barcellona e la Spagna di Iniesta gli hanno sottratto la Champions e l’Europeo. C’era pure a Cardiff, contro il Real di Cristiano, ma ormai tutto era chiaro. Non sto parlando di un fuoriclasse: scrivo di un giovane capace, dal vivaio al mondo, di offrire il cuore alla squadra dal cuore, società dalla maglia gloriosa, pesante, divisoria. Non solo la fedeltà, naturalmente: anche un certo stile, ebbene sì, e il talento, e quel timing che, in campo, allontana dalla normalità e avvicina all’eccellenza.

Si potrebbe definire, per i gol che segnava e costruiva, un Tardelli più pacato, pronto, in casi d’emergenza, a farsi crocerossina della regia se non, addirittura, mezza punta. Vi (e gli) giro una vecchia massima: grande è l’arte di iniziare, ma più grande è l’arte di finire. Fatene buon uso.

Lo spirito è forte, i campioni di più

Roberto Beccantini2 ottobre 2019

Si sapeva che il Barcellona era talmente in crisi da precettare d’urgenza il claudicante Messi. Non si sapeva viceversa, dopo lo Slavia, che Inter avremmo visto. Ebbene: per un’ora, una squadra quadrata e solidale, in puro stile Conte, subito a segno con quel toro di Lautaro (al quale poi ter Stegen avrebbe negato il raddoppio), capace di alternare un catenaccio mobile a contropiede ficcanti, di gruppo, protagonisti – a turno – Candreva e Sanchez, Sensi e Barella, a un passo dal gol. Di Handanovic, a essere sinceri, non ricordo una parata.

Poi, a sabotare la trama della favola, è entrato l’orco. Vidal. Fuori Busquets, De Jong al suo posto, 4-2-3-1, palla a Messi e pedalare. E’ così arrivata, splendida e improvvisa, la firma volante di Suarez su una cartolina dell’Arturo. E, verso la fine, un altro ricamo della premiata sartoria catalana: gran numero della Pulce, palleggio, arresto e sinistro del Pistolero, perso da Godin.

Per lunghi tratti, il Camp Nou sembrava lontano dalla cronaca dei suoi, abituato com’è alla storia della generazione dorata. Assomigliava, il gioco del Barça, a una processione quaresimale, titic e titoc, zero tiri, zero Griezmann, un ingorgo di passaggetti.

Molto ha sofferto, l’atteggiamento interista, l’ingresso del cileno. E Messi, lui, ha capito che le lavagne sono preziose, sì, e il possesso palla (63%) pure, ma i campioni di più, non importa se avulsi (Suarez), incazzosi (Vidal) o acciaccati (Leo).

Conte deve ripartire dal moto perpetuo di Barella e Sensi, dalla garra di Lautaro. Ha lasciato a casa Lukaku (mah), ha sparato sull’arbitro, un classico fin dall’epoca juventina. Se la flessione del secondo tempo non va demonizzata ma neppure trascurata, e se la Champions adesso è fortemente a rischio, la «prima» Inter resta un progetto suggestivo. Anche per questo, il derby di domenica sera, con la Juventus, promette di essere un romanzo salgariano.

Sbadigli e artigli

Roberto Beccantini1 ottobre 2019

Dopo la Sbadigliopoli del primo tempo, scossa dallo sparo di Higuain, la Juventus si è vestita più in fretta del Bayer, portandosi via la partita. Già sconfitti in casa dal Lokomotiv, i leverkusiani hanno privilegiato il possesso palla, facendolo schizzare ai livelli dello spread merkeliano, ai tiri in porta: zero. Mi auguro che Sarri non ne sia invidioso…

Scherzi a parte. Partita strana, e facile. Facile, per le differenze di valori che, nella fase a gironi, la Champions ancora si concede. Strana, perché non capita spesso che, per segnare un gol, Cristiano ne sbagli tre. Strana, almeno in parte, perché il migliore in campo è stato Cuadrado, che fu ala, terzino e terzino, chez Madama, tornò con Allegri, un po’ per emergenza e un po’ per convenienza. E curiosa, alla fin fine, perché il raddoppio l’ha siglato Bernardeschi, sdoganato al posto di Ramsey e per metà partita non meno zingaro del cuore cantato da Nada. Trequartista di complemento, ma di fatto? Lo cercavo a svariati indirizzi, ma non lo trovavo mai. Colpa mia (spero).

A livello singolo, meritano una citazione il Pipita (gol e assist) e De Ligt, sempre più a suo agio nel ruolo di stopper (mi è scappato). Altra cosa: sull’1-0, la Juventus non ha tirato i remi in barca, al contrario. E questo può essere un segnale di discontinuità con il passato. Obiezione: comodo, con le aspirine (a proposito: notizie di Havertz, il predestinato?). Sarà. Rimane un atteggiamento che l’ultimo Allegri lasciava alla clemenza della corte, in campo e fuori. Dall’Inter, domenica, ne sapremo di più. E se decidessero i portieri?

Chiudo con l’Atalanta. E’ crollata sul traguardo come Dorando Pietri. Ha perso per aver cercato di vincere: fino all’ultimo. Con i suoi limiti, con le sue risorse. Adesso è dura, per Gasp. Plasmato da Lucescu, lo Shakhtar rappresenta da anni uno dei punti più alti del ceto medio europeo. Si è visto anche stavolta.